Cesare Cantù e dintorni (2006-2008)

Ogni comunità può vantare di essere stata illustrata da personaggi meritevoli di ricordo per l’impegno profuso nel corso della loro vita nell’applicazione culturale, nella ricerca scientifica, nell’attività filantropica, o semplicemente per avere intrecciato la propria esistenza con quella di uomini di cultura che hanno lasciato un segno profondo del loro passaggio.

Nel caso di Brivio noi possiamo ricordare non pochi nomi che si sono resi meritevoli della nostra memoria e della nostra riconoscenza, da Ignazio Cantù, fratello di Cesare, a Teresa Borri vedova del conte Decio Stampa e seconda moglie di Alessandro Manzoni, a suor Maria Anna Sala, oltre, ovviamente a Cesare Cantù, del quale lo scorso anno cadeva il bicentenario della nascita.

Ignazio Cantù nacque a Brivio nel 1810 e ricevette il nome di battesimo dal nonno paterno. La fama del fratello Cesare, che certo lo sopravanzava per cultura e per vastità di interessi, ne oscurò il nome e l’opera, tanto che di lui ben pochi conoscono la vita e l’impegno letterario. Addirittura molti dizionari nemmeno lo citano e perfino l’Enciclopedia Treccani ne parla sommariamente. Eppure Ignazio fu, nel panorama culturale italiano dell’Ottocento se non un protagonista certamente una figura di rilievo, impegnata non solo nella narrativa, ma anche nella ricostruzione di vicende storiche, come dimostra una sua fatica, ancor oggi interessante e ricca di spunti, intitolata Le vicende della Brianza e dei paesi circonvicini, opera in due volumi edita a Milano negli anni 1836/1837. Gli studi lo appassionavano e leggendo le pagine da lui scritte noi avvertiamo con quanta diligenza egli narrava le vicende del passato, con una messe davvero notevole di notizie e di riferimenti che testimoniano di un lavoro puntiglioso di ricerca e di esame delle fonti. Un lavoro che è giusto ricordare, benché oggi ingiustamente non più citato, è la Vita di Tommaso Grossi, il celebrato autore del romanzo storico Marco Visconti, intrinseco del Porta e del Manzoni e poeta dialettale tra i migliori che il Parnaso milanese dell’Ottocento possa vantare. Se il romanzo più noto di Ignazio Cantù è Il marchese Annibale Perrone, apparso nel 1842, l’elenco dei romanzi da lui dati alle stampe è molto lungo, ancorché oggi completamente dimenticati. Per citarne solo alcuni possiamo ricordare Abisso e riscatto, Scene domestiche per la lettura di famiglia presentate da Ignazio Cantù; Macario Spaccalancia: avventure di un uomo di pace, Antonio de’ Landriani capitano di ventura, scene storiche del secolo XV e molti altri titoli che concorrono a formare una bibliografia degna di rispetto. Ma l’impegno intellettuale di Ignazio non si fermava alla stesura di romanzi storici. Si occupò anche di giornalismo collaborando alla Rivista Europea di cui massimo curatore era suo fratello Cesare. L’eclettismo che caratterizza tutto l’impegno letterario di Cesare Cantù è condiviso dal fratello Ignazio che cura anche una Enciclopedia popolare o collezione di letture amene ed utili ad ogni persona, che vede la luce negli anni fra il 1840 e il 1842. Abilitato all’insegnamento, fu maestro elementare in molti istituti privati e l’attenzione al mondo della scuola sarà in lui sempre costante. Nel 1857 fonda a Milano L’Educatore lombardo, giornale del Pio Istituto di mutuo soccorso dei maestri di Lombardia, istituto del quale lo stesso Ignazio Cantù fu presidente. Attento anche ai problemi sociali nei suoi scritti non manca di stigmatizzare la fatica degli operai addetti a un lavoro duro e ripetitivo negli insalubri opifici del tempo, dipingendo invece con accenti idillici il lavoro del contadino nei campi, in questo riprendendo temi già sviluppati un secolo prima dal Parini e dimenticando quanto faticosa fosse anche la vita dei lavoratori della terra, ancorché il loro impegno si svolgesse all’aria aperta e non in ambienti fumosi, maleodoranti e con ritmi di lavoro spesso disumani. Ma egli era un uomo che avvertiva la forza dei cambiamenti, del progresso sociale, il ruolo determinante che le nuove tecnologie avrebbero sempre di più assolto nell’affrancare l’uomo dalla schiavitù di un lavoro che lo abbrutiva e gli impediva di elevarsi culturalmente. Morì a Milano nel 1877, diciotto anni prima del suo più celebre fratello e il suo nome è oggi quasi dimenticato. Ingiustamente, dobbiamo dire, perché il suo impegno multiforme e appassionato ci appare come uno dei più emblematici, nel campo delle lettere, fra quelli degli scrittori che a cavallo fra Risorgimento e unificazione nazionale hanno contribuito a costruire l’immagine di un Paese nuovo, aperto al futuro, inserito a pieno diritto nel novero delle nazioni d’Europa.

Undici anni prima di Ignazio Cantù, nel 1799, nasceva a Brivio Teresa Borri, figlia del nobile Cesare in quegli anni pretore in paese e di Marianna figlia del conte Giambattista Meda. La famiglia Borri non era originaria di Brivio, ma di Milano. Il caso volle che la secondogenita di Cesare nascesse all’ombra del castello di Brivio semplicemente perché in quegli anni Cesare Borri ne era pretore. Famiglia antica quella dei Borri benché un poco decaduta nel corso delle ultime generazioni. Possedeva una casa di campagna a Corbetta, nel magentino, e nel 1818 Giuseppe Borri, fratello maggiore di Teresa, acquisterà da Carlo Porta la bella villa di Torricella d’Arcellasco nei pressi di Erba, dove Teresa stessa trascorrerà molte villeggiature in compagnia del figlio Stefano avuto dal primo marito, il conte Decio Stefano Stampa. Il rapporto di Teresa con il borgo della sua nascita non sembra essere stato mai molto stretto. Qui nacque per caso e qui non sembra sia mai tornata dopo il matrimonio. La Brianza le era però cara e oltre alla villa di Torricella, sappiamo che nell’infanzia trascorreva molti periodi di villeggiatura a Canzo, nella grande e bella villa dei conti Meda, la famiglia della madre. Il matrimonio con il conte Stampa durò meno di due anni. Nel 1820 è già vedova e con un figlio di poco più di un anno. La vedovanza durerà diciassette anni durante i quali si dedica completamente all’educazione del suo unico figlio, alla lettura, alle pratiche religiose. Il 2 gennaio del 1837 Teresa si unisce in seconde nozze con Alessandro Manzoni, vedovo anch’egli da tre anni e padre di una nutrita schiera di figli. Fautore di quest’unione fu Tommaso Grossi, il grande amico di Alessandro. Girava per Milano una frase scherzosa all’epoca del secondo matrimonio di don Alessandro: “Manzoni ha attentato alla libertà della Stampa”. Sarà un matrimonio accidentato, reso problematico dalla personalità di donna Teresa, che col passare degli anni acuisce il suo temperamento bizzarro, le sue apprensioni esagerate, la convinzione di essere colpita da tutte le malattie possibili ed immaginabili che la portava a una ipocondria che rendeva assai difficile la vita di coloro che le stavano intorno. Venerava il marito per il quale professava un culto assoluto, arrivando a conservare tutto ciò che le sue mani avevano maneggiato, da un biglietto scritto senza alcuna pretesa letteraria, al bottone della sua giacca o ai biglietti della comunione pasquale. ”La sacerdotessa del gran Lama” veniva chiamata a Milano. Al di là delle sue bizzarrie e della fastidiosa ipocondria (passò quasi tutta la vita a letto, convinta di essere sempre sul punto di morire), Teresa Borri amò profondamente il Manzoni e la sua opera e molto di ciò che si è conservato in fatto di cimeli manzoniani lo dobbiamo alla sua maniacale conservazione di tutto quello che riguardava la vita, anche quella più minuta e apparentemente insignificante, del grande scrittore. Morì nel 1861, non ancora vecchia, lasciando don Alessandro vedovo per la seconda volta. Certo Brivio ha solo dato i natali a questa donna ricca di temperamento e di bizzarria, eppure non possiamo non rilevare come questo piccolo borgo bagnato dall’Adda, fiume così intimamente legato al Manzoni, si intrecci con la vita di alcune persone che al Manzoni sono state legate per motivi diversi: Teresa Borri, sua seconda moglie e Cesare Cantù la cui personalità, la cui opera, la cui stessa vita non possono essere disgiunte dalla figura grandissima dell’autore dei Promessi Sposi.

In questa che fu la casa natale di Cesare Cantù, vogliamo questa sera brevemente ricordarne la figura e l’opera a poco più di duecento anni dalla nascita, anniversario che è stato degnamente celebrato con una serie di iniziative conclusesi con un convegno aperto a Milano nella prestigiosa sede della Società del Giardino e infine nella sala consiliare del municipio di Brivio. A distanza di due secoli la personalità di Cesare Cantù, decantata dalle incrostazioni di cui il tempo e le debolezze dei contemporanei l’avevano offuscata, relegandola in un ambito secondario e non consono alla grandezza dell’uomo, si impone alla nostra attenzione per la vastità degli interessi coltivati da questo schivo e scomodo scrittore, storico e giornalista, una delle figure che più hanno caratterizzato l’eclettismo culturale del secolo decimonono, ricco di fermenti, di spinte rivoluzionarie, di rinnovamento nei più diversi ambiti dell’umano operare. Cesare Cantù nacque in una famiglia della piccola borghesia nel 1804. Da ragazzo portò, senza nessuna vocazione, l’abito talare, come allora usavano molti giovani di modesta famiglia che potevano in tal modo procurarsi un’istruzione. Lui stesso scriverà che indossò la veste talare perché questa era “l’unica veste che a noi proletari facesse perdonare l’arroganza di metterci agli studi come i signori”. A 18 anni già insegna nei licei di Sondrio prima e di Como poi. La vocazione alla scrittura la coltiva fin dagli anni della giovinezza e nel 1828 dà alle stampe un poemetto in ottava rima L’Algiso. La poesia lo attrae ma non è questa la disciplina intellettuale nella quale darà miglior prova del suo talento. La materia che più lo affascina è la storia, crogiuolo di avvenimenti, di grandezza e di miseria che compongono il misterioso destino degli uomini. Alla fine degli anni ‘20 pubblica una Storia di Como e sua Diocesi, un’opera che rompe con la sussiegosa ed accademica prassi narrativa degli storici per addivenire a un racconto fresco, avvincente come un romanzo, caratterizzato da un’esposizione rapida ed immediata, tale da interessare alla lettura anche chi non ha particolari strumenti critici o una preparazione storica adeguata. La produzione di Cesare Cantù è, in termini quantitativi, assolutamente impressionante anche perché egli passa con estrema naturalezza dal saggio storico al romanzo, dalla poesia, all’articolo giornalistico. Un poligrafo nel vero senso della parola, di tutto curioso, instancabile, polemista indomito, fondatore di periodici, insomma un operatore culturale avanti lettera verso il quale si accaniranno le gelosie e le insofferenze di chi militava negli stessi campi pur non potendo competere con l’inesausta creatività di questo brianzolo cocciuto e scostante, che sapeva proseguire per la sua strada forte del proprio carattere volitivo e di una determinazione che gli consentiranno di imporsi nella società milanese, e non solo, del suo tempo e per tutto l’arco della sua lunga vita interamente spesa nello studio, nella fatica intellettuale, nel duro lavoro del ricercatore e dell’educatore, incurante delle critiche, spesso aspre che gli venivano da più parti rivolte, accuse di approssimazione e di scarso approfondimento, di corrività giornalistica. E certamente Cesare Cantù fu soprattutto un giornalista, con tutte le qualità e con tutti i difetti del giornalista, come la fretta, l’approssimazione, cui si accompagnano però lo spirito di osservazione, la curiosità inesausta, la passione per la polemica, la facilità di scrittura. La produzione del Cantù è davvero sterminata e difficile è ricostruire, senza incorrere in omissioni, l’imponente bibliografia che a lui fa capo. Si possono citare fra i suoi primi lavori La Guida del Lago di Como ed alle Strade di Stelvio e Spluga, La rivoluzione della Valtellina, che sarà poi ripubblicato con il titolo più conosciuto di Sacro Macello. Nel 1832 insegna al Ginnasio S. Alessandro di Milano. Di quel periodo è un’opera destinata a lasciare un’orma profonda negli studi storici italiani: La Lombardia nel secolo decimo settimo, ragionamento per commento ai Promessi Sposi. Il capolavoro manzoniano ha visto la luce da pochi anni ed ha già conquistato una popolarità che forse nessun’altra opera letteraria precedente aveva mai raggiunto. Cantù è tra i primi a rendersi conto dell’importanza di questa opera letteraria innovativa, poderosa e fondata su reali vicende storiche che si sono svolte anche qui fra noi, nella Lombardia del secolo XVII. Il romanzo storico sta avendo in Europa un successo straordinario legato soprattutto all’epopea di Walter Scott. In Italia Manzoni inaugura questo filone che tanto successo avrà

negli scrittori contemporanei e basti ricordare l’Ettore Fieramosca del D’Azeglio, il Marco Visconti del Grossi o la stessa Margherita Pusterla del Cantù. La Lombardia nel secolo decimo settimo attira sul suo autore molte critiche per l’incompiutezza dei dati storici e per il loro travisamento, critiche che gli storici accademici spesso rivolgeranno all’autore di Brivio e non credo che sempre esse fossero fondate e non piuttosto dettate da malanimo nei confronti di uno scrittore che invadeva il campo degli studiosi accreditati. D’altro canto il Cantù non era andato alle fonti, ossia non aveva letto i documenti ma soltanto ciò che di quel periodo avevano scritto gli storici del passato. Incarcerato dall’Austria perché ritenuto d’idee liberali e accusato di aver congiurato contro l’ordine stabilito, il Cantù mise a profitto il tempo trascorso in carcere scrivendo il suo romanzo storico più noto, Margherita Pusterla che solo nel 1838 potrà essere pubblicato perché colpito dalla censura. Aveva nel raccontare la capacità di rendere vivi e credibili i personaggi cui dava vita sulle pagine dei suoi volumi e sembra anche che nei poveri perseguitati ed offesi del romanzo egli tratteggiasse se stesso, ingiustamente condannato e umiliato dalle autorità governative che per ben undici mesi lo avevano privato della libertà. Sapeva toccare le corde più sensibili del lettore, dando vita a uno scenario di grande suggestione, dipingendo gli avvenimenti con straordinario realismo, quel realismo che era d’altro canto caratteristica precipua di tutto il movimento romantico che proprio in quegli anni si affermava nella cultura e nella letteratura italiana. L’attenzione verso gli umili e verso il popolo, altra fondamentale connotazione del movimento romantico che in Porta prima e in Manzoni dopo aveva trovato i suoi massimi esponenti, fu una costante nella produzione di Cesare Cantù. Nel 1836 aveva pubblicato Carlambrogio di Montevecchia, il Galantuomo nel 1837, Il buon fanciullo ancora nel 1837, opera quest’ultima che ci conferma anche la vocazione pedagogica di Cantù, il suo voler essere educatore della gioventù, un aspetto basilare del suo impegno di scrittore e di uomo di cultura. Ma in quegli stessi anni egli dà inizio alla pubblicazione di un’opera poderosa, quella Storia Universale che si concluderà con il trentunesimo volume nel 1846. Mai nessuno prima del Cantù aveva concepito un lavoro tanto impegnativo nell’ambito della storia dell’uomo. Scriveva nella introduzione, fra l’altro, che “non credo che la storia possa proporsi più degno scopo che d’infondere operosa affezione pei deboli, sommessione decorosa ai potenti, amore per l’ordine sociale, venerazione per la provvidenza, assodando il concetto morale per cui l’uomo sentasi una destinazione sociale e l’obbligo di recare tributo d’amore, d’intelligenza, di opere al miglioramento dei fratelli e al progresso dell’intera umanità”. Parole alte e nobili che ci rivelano la statura morale di uno scrittore, di un uomo di cultura che ha lasciato una traccia profonda nella società italiana del secolo diciannovesimo, quel secolo che egli attraversò quasi per intero con una coerenza esemplare e con la consapevolezza di porsi sempre e comunque al servizio della conoscenza, senza indulgere mai al compromesso, senza deflettere dai dettati che la sua coscienza gli imponeva. Anche nel caso della Storia Universale le critiche furono molte e aspre. Lo si accusò di plagio e addirittura di avere scritto una storia antitaliana. Così infatti si espresse un critico, sostenendo che la sua ricostruzione dei fatti era “fondata sopra principi retrogradi, riprovati da tutti i sommi geni di cui si onora l’Italia, da Dante fino al secolo XIX”. Eppure i libri di Cesare Cantù incontravano il favore dei lettori, forse proprio perché non paludati, accademici, come molte delle opere storiche del tempo riservate agli addetti ai lavori. La sua grande intuizione fu proprio quella di scrivere compendi alla portata di chi, pur non sorretto da una preparazione culturale adeguata, grazie ai libri del Cantù riusciva ad avvicinarsi a testi altri-menti preclusi, riusciva ad appassionarsi alla storia narrata con semplicità, forse eccessiva, può darsi, forse inficiata da un non sorvegliato controllo delle fonti, ma arrivando in tal modo a comprendere le tappe fondamentali della storia dell’uomo, gli avvenimenti che avevano condizionato nel bene e nel male le generazioni che questa storia avevano scritto con il sangue, con il sacrificio, con la carità verso i fratelli, o viceversa, con la sottomissione violenta, il sopruso, la forza prevaricatrice. A pochi mesi dall’insurrezione milanese delle Cinque Giornate, la polizia austriaca circonda la casa del Cantù a Milano per arrestarlo. Pochi mesi prima, infatti, a Venezia, egli aveva tenuto una relazione sulle ferrovie attaccando il governo austriaco e auspicando l’unificazione degli Stati italiani. Avvertito in tempo, egli ripara a Torino e solo dopo il felice epilogo delle Cinque Giornate farà rientro a Milano e qui si attirerà nuove critiche per la sua nomina a segretario

dell’Istituto lombardo. Certo egli non si espose come altri patrioti negli anni della lotta clandestina contro l’Austria e forse non assunse mai una posizione decisa, a rischio della sua stessa libertà. Eppure nel riscatto della Nazione egli credeva sinceramente anche se le sue posizioni non collimavano perfettamente

con quelle dei patrioti più accesi e intransigenti. Era un moderato, non certo un estremista, ma nei suoi scritti egli sempre ricordò la condivisione degli ideali risorgimentali per i quali, dopotutto, aveva anche patito il duro carcere del governo austriaco. Avvenuta l’unificazione nazionale, Cantù dà inizio al suo impegno politico con l’elezione a deputato al Parlamento, il che gli attirò nuove aspre critiche. Passava per papista, per cattolico intransigente e reazionario ed era perciò avversato da chi, in quel momento di dura contrapposizione fra Stato e Chiesa, vedeva in lui il rappresentante di un clericalismo oscurantista, nemico dell’unità nazionale e dei valori liberali che erano stati alla base della riscossa risorgimentale. Ma in parlamento egli certo non tace. Prende posizione netta contro le esecuzioni sommarie nel Mezzogiorno, contro il colonialismo francese dell’Indocina e si batte affinché non venga impedito al clero di svolgere la sua missione così come si oppone alla soppressione degli ordini religiosi con il conseguente incameramento da parte dello Stato di tutti i loro beni fondiari. Ma la sua vera vocazione non è certo quella del politico. Riprende a scrivere con sempre maggiore lena dopo aver lasciato gli impegni parlamentari e si dedica alle biografie di Parini, di Monti, di Beccaria. Nel frattempo è nominato direttore dell’Archivio di Stato di Milano, un incarico che seppe svolgere con intelligenza e totale dedizione senza usare di quell’ufficio per dedicarsi ai suoi studi privati, come era costume diffuso in quel tempo da parte di molti dipendenti dello Stato. Certo nulla faceva per accattivarsi le simpatie di coloro che entravano in contatto con lui. Scrive Marino Berengo che “spiacere a tutti era una testarda vocazione del Cantù”; c’è forse dell’esagerazione in questo giudizio, ma certo l’uomo era difficile, poco socievole, chiuso a volte in uno sdegnoso isolamento, forse dava l’impressione di una superbia intelletuale che era solo incapacità di comunicare serenamente con gli altri. Un ritratto impietoso ed ingiusto ce ne ha lasciato Benedetto Croce: “fu giudicato un reazionario in maschera di liberale, e forse non fu neanche questo, ma semplicemente uno spirito vanitoso, iroso, puntiglioso, bisbetico, che odiava tutto ciò che era vivo e presente”. Ci sembrano parole faziose, non ponderate, dettate da pregiudizi e falsate da una negativa considerazione che dell’uomo e dello scrittore ebbero i suoi contemporanei, certo non poco ostili nei confronti di un letterato non ricco di simpatia umana, ma depositario di una cultura enciclopedica, attento ai fermenti e alle nuove istanze che provenivano dal mondo delle lettere, non solo di casa nostra. ”Come tacere”, ha scritto di lui Gianfranco Bianchi “il costante interesse per il divenire e l’organizzazione della cultura che fa grande l’erudito poligrafo Cesare Cantù, uomo dalle cinquecento opere che ha immesso la piccola borghesia cattolica italiana negli spazi della “Storia Universale”, soddisfacendo curiosità e ambizioni, portando fra le domestiche mura costumi, fatti, immagini, lette-ratura, soddisfacendo in tal modo a esigenze che persistono ancora oggi che la pubblicazione a dispense e le trasmissioni televisive soddisfano a domicilio?”. Una decina d’anni dopo la morte del Cantù, la casa editrice Agnelli di Milano, nel presentare la sesta edizione di “Buon senso e buon cuore: conferenze popolari di Cesare Cantù”, si rifà alla massima di Cesare Balbo: “finché i libri non si fanno leggere da donne e da giovani non eruditi, è vano e stolto sperare effetto dai libri”. E poi aggiungeva: “A quelli di Cesare Cantù toccò la sorte di andare appunto nelle mani dei giovani, delle donne, del popolo. Non vi è donna che non conosca la Margherita Pusterla, la Madonna d’Imbevera, la Povera Menica, la Setaiuola, i Racconti alla buona. Non vi è quasi uomo che nelle scuole non si sia educato sul Buon Fanciullo, il Giovinetto, il Galantuomo, il Carlambrogio da Montevecchia”. Insomma il Cantù è uno scrittore, un pensatore, uno storico con il quale si devono fare i conti ogni qualvolta si voglia prendere in considerazione il paesaggio culturale dell’Italia tanto preunitaria che postunitaria; la sua personalità è di quelle che si impongono al di là di ogni pur ragionevole critica al suo multiforme operare, tanto il suo contributo ci appare determinante per la crescita civile, culturale e morale della nazione. Nello sterminato catalogo delle sue opere, non è possibile dimenticare quella ancor oggi forse più popolare, realizzata negli anni ‘50 dell’Ottocento con l’aiuto di un’équipe nutritissima di collaboratori, quella “Illustrazione del Lombardo Veneto” che può essere considerata una guida turistica ante litteram, una fatica di grande respiro in più volumi in cui sono descritti i paesi, le ville, le bellezze naturali, la storia, i personaggi delle due regioni allora sotto il dominio austriaco, pagine che si leggono ancora oggi con diletto, arricchite da eleganti incisioni. Un monumento editoriale cui più di qualsiasi altra fatica letteraria è legato oggi il nome del Cantù, di cui sarà almeno da ricordare la collaborazione alla “Rivista Europea”, fondata da Giacinto Battaglia ma della quale egli sarà l’anima vera e il direttore effettivo. La rivista durerà fino al 1848 e rappresenta una pietra miliare nel campo del giornalismo italiano di quei tempi. E’ certamente un’ingiustizia che di un simile uomo si sia lasciata cadere nell’oblio la figura e l’opera non appena la sua vita arrivò a conclusione, nel 1895, centodieci anni or sono. Personalità di statura non paragonabile alla sua sono ancora ben vive nella storiografia e nella memoria collettiva, anche solo per aver loro dedicato istituti culturali, scuole, vie o piazze d’Italia, dedicazioni che sono invece mancate, tranne eccezioni, allo scrittore di Brivio. La grande personalità di Alessandro Manzoni non poteva non attrarlo. E infatti nel 1828 gli scrive una lettera con la quale gli chiede l’autorizzazione a dedicargli la novella Algiso con queste parole: “ad Alessandro Manzoni poeta della patria e della virtù in segno di ammirazione dedica l’Autore”. Da Brusuglio don Alessandro gli risponde con parole garbate ma ferme, rifiutando l’offerta della dedica, come era di norma solito fare in casi analoghi. “Piaccia dunque deporre, con quell’amico animo con che l’ha concepito, il troppo degnevole pensiero; e mi permetta ch’io possa godere, col cuor quieto e senza arrossire, il piacere di leggere la novella ch’Ella promette”. Questa prima presa di contatto permise al giovane scrittore briviese, insegnante nel ginnasio di Como, di allaccciare un rapporto col Manzoni che poté incontrare solo dopo che l’autore dei Promessi Sposi “ebbe la pazienza di leggere l’Algiso insieme col Grossi”, come ci dice lo stesso Cantù in quel bellissimo libro dal titolo Reminiscenze, pubblicato nel 1882 e nel quale tratteggia un intenso ritratto del Manzoni, peraltro assai criticato dagli avversari del Cantù che lo accusavano di avere enfatizzato il suo rapporto con don Alessandro per mettere in luce se stesso e addirittura di aver contrabbandato per lettere inviategli dal Manzoni delle semplici conversazioni avvenute fra loro. Quel che è certo è che i rapporti fra i due grandi lombardi si guastarono di lì a non molti anni e le ragioni non sono del tutto note. Sembra che donna Giulia, la madre del Manzoni non avesse in simpatia il Cantù che lei accusava di sfruttare l’amicizia col figlio per rubargli idee. E’ ben nota l’influenza di donna Giulia sul figlio e forse l’antipatia che lei provava nei confronti di questo giovane e secondo lei, non disinteressato amico, indusse il Manzoni a troncare i suoi rapporti con il giovane scrittore. C’è una testimonianza di Enrico Manzoni, allora ventenne, figlio di don Alessandro che sembra illuminarci sui sentimenti di quest’ultimo nei confronti del Cantù: “Annunziatogli il Cantù mentre questi entrava nel suo studio, ei non ismise di leggere un giornale, ed alzandosi, col giornale sempre spiegato tra le mani e in atto di seguitare a leggerlo, uscì dallo studio e non vi rientrò più”. Ma c’è un’altra ragione, forse ben più determinante, alla base del raffreddamento dei rapporti fra i due. E’noto che il Cantù aveva intrecciato una relazione con donna Antonietta Beccaria, zia acquisita del Manzoni, ancorché più giovane di lui. Aveva sposato infatti Giulio Beccaria, fratellastro di sua madre. Da questa relazione erano addirittura nate due figlie ed è evidente come tutto ciò non potesse garbare a un uomo di indiscussa dirittura morale quale era il Manzoni. Eppure il Manzoni aveva tenuto in grande considerazione il Cantù scrittore e storico. Quando nel 1832 questi gli invia una copia della sua Storia della città e della Diocesi di Como, il Manzoni gli risponde con accenti di sincero apprezzamento e noi sappiamo che il Gran Lombardo non era incline all’adulazione né tantomeno a dire cose che non pensava. Piuttosto, taceva come molto spesso gli capitava quando gli venivano sottoposte fatiche letterarie di poco o nessun conto. Gli scrive dunque il Manzoni: “Se appunto non temessi di avere aria di proferir sentenze, mentre non vorrei che esprimere un sentimento, direi parermi ch’Ella abbia saputo mirabilmente approfittare dei vantaggi che pure hanno, e non così pochi né leggieri, codeste storie municipali: come, per accennarne uno, quello di rappresentare per lati nuovi cose conosciute, descrivendo i modi e le conseguenze, in una parte circoscritta, di avvenimenti celebri”. E conclude con queste parole davvero lusinghiere: “Ma io non so quando finirei, se volessi raccontarle tutte le impressioni che ho ricevuto dal suo bel libro”. Un rapporto com-plesso, dunque, quello fra questi due grandi lombardi, due spiriti elevati, due personalità indubbiamente molto diverse ma le cui strade era giocoforza avessero a incontrarsi. Molte cose le univano, molte le dividevano. La fede intemerata, innanzitutto, che permeava la loro vita e la loro opera, pur nel differente modo di viverla; tormentata nel Manzoni, problematica e sofferta; più tradizionale, forse, nel Cantù, ma robusta e profondamente vissuta. L’olimpico distacco del Manzoni dalle cose del mondo, l’astensione da giudizi definitori sull’operato delle persone con cui entrava in contatto, il suo negarsi discreto ma risoluto agli impegni e alle incombenze della notorietà, e invece il coinvolgimento molto più combattivo nell’agone politico, letterario, sociale del Cantù, la sua partecipazione diretta, polemica e mai rinunciataria alle battaglie della vita, schierandosi coraggiosamente ma anche a proprio scapito dalla parte che riteneva più consonante con le sue convinzioni religiose, con il suo credo politico, con la sua visione della società. Un uomo che ha lasciato un’orma indelebile del suo passaggio, una personalità contraddittoria forse, ma che si staglia nel panorama culturale del secolo decimonono con un profilo di assoluta grandezza. A centodieci anni dalla scomparsa, la figura e l’opera di Cesare Cantù emergono dalle vicende dei tempi in cui visse con una maggiore pacatezza di giudizio, con un riconoscimento doveroso dei meriti dell’uomo e dello scrittore, un intellettuale che ha onorato la cultura italiana, un figlio di questa terra brianzola, generosa e schiva come lui. Mi piace concludere questa breve rievocazione con alcune parole che ben delineano la figura del Cantù, scritte dal milanese Gaetano Negri, uomo politico, scrittore e storico, all’indomani della morte dello scrittore: “L’omaggio concorde che gli è reso da tutta la nazione, l’unanimità del rimpianto e della lode ci dicono che Cesare Cantù appartiene a quella classe di uomini grandi che, malgrado i loro errori e le loro passioni, hanno diritto ad una gratitudine intiera e senza reticenza, simile al sole che ci benefica con i suoi torrenti di luce e di calore, eppur anche il sole ha le sue macchie nere; ma chi le vede?

di Gianfranco Scotti

A proseguimento del progetto “Cesare Cantù e l’età che fu sua”, si è aperto Giovedì 27 aprile 2006 presso l’Università degli Studi di Bergamo con la Giornata internazionale di studio il progetto “Cesare Cantù e dintorni”

Sabato 20 Gennaio 2007 a Brivio è stata presentata la riedizione della princeps della Margherita Pusterla a cura di Marco Sirtori, Milano, Viennepierre

Mecoledì 18 Aprile 2007 presso l’Università degli Studi di Milano si è svolta la presentazione del volume: Cesare Cantù e “l’età che fu sua” a cura di Marco Bologna e Silvia Morgana, Milano, Cisalpino, 2006

Sabato 14 Luglio 2007 si è inaugurata la mostra “Brivio per Ignazio Cantù” a cura di Masimo Cunegatti mentre Giuovedì 19 Luglio 2007 Angelo Borghi ha tenuto la relazione dal titolo “Ignazio Cantù nella cultura Lombarda”

Sabato 19 Gennaio 2008 a Brivio presso il Palazzo Comunale, si è tenuta la conferenza “La capsella di Brivio tra fede, arte e storia”, Relatore: Rocco Giovine, studioso di storia medioevale

Domenica 6 Luglio 2008 presso la p.zza del Lavoro (ex area Tovo) a Brivo, poi per causa di maltempo è stato sposta all’interno della fabbrica Electro Adda di beverate, Like a Rolling Stone, spettacolo teatrale rileggendo il “Portafoglio di un operaio” di Cesare Cantù a cura di BRIG

Dal 12 al 20 Luglio 2008 si è tenuta presso la casa natale Cesare Cantù, via Cesare Cantù a Brivio la mostra “La leggenda del Lago di Brivio” cartografia, pesca e pesci del lago di Brivio nelle stampe (del XIX secolo), Giovedì 17 luglio si è svolta la proiezione del video “la pesca e i suoi prodotti” a cura del dott. Paolo Manzoni

Il progetto si è chiuso Sabato 27 settembre 2008 a Villa Monastero di Varenna – con la giornata internazionale di studio: Tra le carte di Cesare Cantù: nuovi percorsi.

Relazioni degli interventi

27 Aprile 2006 a cura di Luca Bani

MARIELLA COLIN (Univerité de Caen Basse-Normandie)

L’opera pedagogica di Cesare Cantù in Francia – Traduzione e ricezione

L’intervento di Mariella Colin si incentra sulla ricezione e traduzione degli scritti pedagogici di Cantù in Francia e si articola in due parti: una breve introduzione dedicata alla genesi di queste opere pedagogiche e una seconda parte relativa al destino che esse ebbero nel contesto culturale francese. Cantù non fu solo storico, storico della letteratura e poligrafo, ma nella sua vasta produzione vi sono anche numerosi testi pensati e composti in modo specifico per la formazione morale dell’infanzia. Questa produzione rivela senza dubbio le origini di Cantù e la sua prima vocazione: quella di insegnante e di educatore della gioventù. Vocazione tragicamente interrotta dal punto di vista professionale dall’incarcerazione del 1833, ma che non scomparve dall’orizzonte degli interessi specifici di Cantù. Da ciò scaturiscono titoli come Il buon fanciullo, Il giovinetto drizzato alla bontà, al sapere e all’industria e Il galantuomo. Libro di morale popolare. Contemporaneamente alle edizioni italiane di questi testi pedagogici vedono la luce le corrispettive edizioni francesi, le quali ebbero in generale un’accoglienza migliore rispetto a quanto successe in Italia (a questo proposito si vedano in modo particolare i giudizi di Francesco De Sanctis). La fortuna francese dei racconti pedagogici di Cantù è dimostrata anche dai numerosi adattamenti ai quali essi furono sottoposti e il cui scopo era quello di attualizzarne il messaggio alla realtà transalpina, ampliandone con ciò l’efficacia educativa e morale. Questi adattamenti sottolineano quindi come il modello educativo della narrativa pedagogica di Cantù ben si inserisca nella temperie romantica allora prevalente in Francia.

 

FABIO DANELON (Università per Stranieri di Perugia)

Cesare Cantù storico della letteratura

Nelle Lezioni di letteratura italiana, che escono tra il 1866 e il 1872, Luigi Settembrini dà un giudizio decisamente negativo della Storia della letteratura italiana di Cesare Cantù pubblicata nel 1865. Comunque la si voglia vedere, quella dello storico di Brivio è sicuramente un’opera eterodossa nel panorama dell’Ottocento italiano, perché si contrappone alla linea storiografica tracciata da Paolo Emiliani Giudici, Luigi Settembrini e Francesco De Sanctis caratterizzata da una visione laica e profondamente filo risorgimentale. Cantù tenta invece di costruire una storiografia letteraria di orientamento decisamente cattolico e vuole svolgere con la sua opera un ruolo di controinformazione rispetto alla ideologia egemone di quegli anni, sottolineando con ciò il proprio ruolo di esponente e portavoce della cultura cattolico-romantica lombarda di ascendenza manzoniana. Per Cantù la misura moralistica è la chiave di distinzione tra le opere e gli autori e solo quest’ultimo è il criterio che lo porta a condannare o stigmatizzare la maggior parte degli scrittori maggiori della storia letteraria italiana (Dante, Boccaccio, Ariosto, Machiavelli, Foscolo, Leopardi) e in generale tutti gli autori minori (l’esempio più ovvio è l’Aretino), tramutando il proprio discorso storico-letterario in un vero e proprio ‘esercizio della stroncatura’. Il carattere particolarmente astioso e moralistico della Storia della letteratura italiana di Cantù è sanzionato dalla sua sfortuna editoriale, decisamente singolare per un autore generalmente apprezzato, soprattutto da un pubblico medio-basso, le cui opere maggiori furono ampliamente ristampate per tutto l’Ottocento.

 

MARINELLA COLUMMI CAMERINO (Università di Venezia)

Cesare Cantù e la “Rivista Europea”

L’intervento di Marinella Colummi Camerino si rivolge soprattutto alla figura di Cantù come abile organizzatore dell’industria editoriale, come mediatore di cultura, come dirigente e consulente redazionale e, ovviamente, come giornalista in quel breve volgere di anni che vanno dal 1834, anno della sua scarcerazione, fino al 1839. In questi ruoli Cantù fu un vero e proprio maestro, modello e precursore per quella che, forse ancora impropriamente per quegli periodo, si può chiamare ‘industria culturale’. Gli anni Trenta sono cruciali per l’evoluzione del mercato editoriale e Cantù si pone al centro di questo sviluppo diventandone l’arbitro indiscusso e cercando di indirizzarlo verso una regolamentazione seria e rigorosa che, ad esempio, riconosca il diritto d’autore e in questo modo possa tutelare gli scrittori dalla piaga delle edizioni pirata che non solo lede irrevocabilmente la qualità artistica delle opere, ma sottrae agli autori la possibilità di trarre un adeguato sostentamento dal proprio lavoro intellettuale. In quest’ottica va inquadrata anche l’attività più strettamente giornalistica di Cantù. Se da un lato, infatti, essa si volge alla diffusione, soprattutto tra le classi sociali medio-basse, dei principi di una cultura e di una letteratura fondate su precisi dettami etici e morali, dall’altro molti degli interventi di Cantù, e in particolar modo quelli pubblicati proprio sulla “Rivista Europea”, sono dei proclami appassionati per la costituzione di un mercato editoriale che sia sempre più in grado di diffondere la scaturita da questi principi e che non manchi di garantire protezione ai suoi autori.

 

MARINA PALADINI (Università di Trieste)

Riflessioni intorno al “Portafoglio d’un operajo”

Le riflessioni di Marina Paladini si articolano intorno al problema fondamentale che contraddistingue lo sviluppo dell’industria italiana nel secondo Ottocento: la questione operaia. La classe operaia, secondo il Cantù del Portafoglio d’un operjo, deve essere difesa dalle tentazione rivoluzionarie derivanti dalle teorie sociali marxiste che proprio in quegli anni si andavano diffondendo. Per meglio contrastare queste teorie l’unica soluzione rimane quella di garantire agli operai una dignità che troppo spesso viene loro negata da condizioni di vita disumane e da un’inferiorità culturale non mitigata da un sistema educativo classista. Nella dinamica di una relazione tra padrone e operaio che per Cantù non deve comunque sconfinare dal modello paternalistico del rapporto tra una figura genitoriale premurosa e dei figli obbedienti, gli operai devono quindi essere messi in condizione di poter condurre un’esistenza che non sia condizionata dalla legge del profitto e che non sia regolata unicamente dai principi del massimo profitto e dello sfruttamento. Le teorie sociali enunciate da Cantù nel Portafoglio d’un operajo sono un’intelligente e aggiornata rielaborazione clericale e moderata dei principi del ‘lavorismo’. Una rielaborazione, quella di Cantù, che sta alla base di gran parte dell’ideologia e della politica sociale di quegli anni.

 

Sabato 20 Gennaio 2007 a cura di Claudia Crevenna

MATILDE DILLON WANKE (Università degli Studi di Bergamo)

Con la Margherita Pusterla Cantù si cimenta con il suo primo romanzo, nel delicato momento che segue l’esperienza del carcere, la riflessione teorica di presa di distanza dal romanzo storico, e le perplessità già maturate da Manzoni nei confronti del genere letterario.

Cantù è certo epigono del genere romanzo storico, dopo le prove di Manzoni, Tommaso Grossi e altri; infatti si è spesso parlato del ‘manzonismo’ della Margherita Pusterla. Tuttavia è importante considerare anche l’altro aspetto del lavoro di Cantù: l’allontanamento dalle posizioni di Manzoni, scelta che mostra soprattutto nell’adottare il punto di vista dal basso nella descrizione e nel giudizio dei Visconti; nella critica al potere secondo la lezione di Machiavelli; nel richiamo costante al popolo.

È inoltre opportuno evidenziare il coraggio di Cantù nella scelta di una protagonista che non è un personaggio di invenzione, ma una reale figura storica, per la cui ricostruzione Cantù stesso cita le sue autorevoli fonti. Ma l’indicazione delle fonti fornita dall’autore non è completa e tace proprio la testimonianza primaria alla quale s’ispira per la ricostruzione di Margherita come personaggio innocente, vittima di un meccanismo spietato e cinico. La fonte taciuta ma principale della Margherita Pusterla è la Storia di Milano di Pietro Verri. Recuperando Verri come autorità storica, Cantù compie un’operazione esattamente inversa rispetto a Manzoni: Manzoni infatti criticò Verri ne Il Conte di Carmagnola, riabilitando il protagonista; Cantù invece si serve della testimonianza di Verri proprio per dichiararsi storico, e fare di un personaggio storico il personaggio di un romanzo.

gli anni.

 

MARCO SIRTORI (Università degli Studi di Bergamo)

La figura di Margherita Pusterla è la traccia del gusto e della cultura dell’800 che avvicina gli esiti della letteratura alta alla cultura popolare. Dopo la riscoperta e riabilitazione letteraria del personaggio compiuta da Cantù, Margherita comincia infatti a popolare i teatri, i libretti d’opera, e persino gli spettacoli di marionette per bambini. Proprio negli stessi anni ’30 dell’800, in cui prende forma il romanticismo italiano, il romanzo storico contribuisce alla creazione di un nuovo immaginario collettivo e Margherita Pusterla si colloca perfettamente entro queste dinamiche come personaggio testimone dei nuovi valori.

Nel suo saggio del 1834 sul romanticismo (data significativa perché concomitante alla carcerazione e quindi alla gestazione del romanzo), Cantù mette a fuoco il romanticismo non come fenomeno storico, ma come categoria estetica universale, che consiste nel “dipingere la natura al vero col variare le impressioni”. In effetti nella Margherita Pusterla si trovano il tragico, il comico, l’idillio e la ferocia umana; questi vari tratti non sono cedimenti dell’autore verso il gusto corrente, ma una sorta di rimedio contro una letteratura che sta smarrendo il suo senso più intimo: quel “vero morale” della lezione manzoniana, che Cantù definisce come “unità del cuore”. Non a caso Cantù ritiene lettori ideali quelli che sanno “spasimare” di fronte alle disgrazie dell’innocente protagonista.

L’enorme successo del romanzo portò a numerose riedizioni (legittime e non) comportando perciò, per la nuova pubblicazione dell’opera, la necessità di un’attenta riflessione circa l’edizione cui fare riferimento. Cantù in effetti lavorò a lungo e riaggiustò il romanzo più volte, ma la scelta è caduta sulla princeps perché rappresenta il pensiero dell’autore nella sua immediatezza, senza che ancora fossero subentrati la rielaborazione e il filtro dell’esperienza personale, segnata anche dal trauma della carcerazione. Quindi la princeps, nella freschezza di una prima edizione, rivela Cantù pienamente interprete del suo tempo; l’entusiasmo e forza trascinante dell’opera alla sua prima uscita trovarono eco anche in Mazzini, che la definì “romanzo arditissimo”. Cantù, nelle edizioni successive, cercò di limare proprio queste punte, forse intuendo i rischi di una possibile manipolazione degli intenti del suo romanzo.

Da ultimo si sottolinea il valore dell’opera anche per la storia dell’illustrazione. Il romanzo storico nasce infatti come romanzo illustrato e già nel 1843 Cantù, su imitazione della quarantana di Manzoni, pubblica a Torino un’edizione ricca di illustrazioni, con l’intento programmatico di avvicinare un pubblico più vasto possibile. Nella nuova edizione si è perciò voluto anche tenere conto della varia vicenda delle illustrazioni dell’opera, includendo, grazie alla disponibilità di Emilio Villa, illustrazioni tratte dalla princeps del ’38, dall’edizione del ’43 e dall’edizione milanese del ’89.