Varenna 11 Giugno 2005
Franco Della Peruta (Università di Milano)
Le relazioni tra Cesare Cantù e Federico Sclopis
Oggetto della relazione sono le tematiche e il valore complessivo del carteggio (1842-1877) tra Cesare Cantù e Federico Sclopis. Uomo di cultura e personaggio politico, il torinese Sclopis entrò nella magistratura sabauda negli anni ‘40 e compì il cursus honorum sino a diventare senatore nel 1848.
Il carteggio tra i due pone a confronto da un lato un Cantù reduce dai richiami al patriottismo presenti nei suoi scritti dal ‘28 agli anni ‘30 (si pensi ad Algiso o la lega lombarda, la Storia di Como, il Ragionamento sulla Lombardia, la Lettera sul romanzo storico) e dall’esperienza carceraria per sospetti legami con la Giovine Italia; dall’altro uno Sclopis che, dopo aver simpatizzato per i liberali durante la rivoluzione del ‘21 senza parteciparvi attivamente, aveva trovato la sua collocazione entro le maglie della politica sabauda. Il Prof. Della Peruta mette acutamente in evidenza l’ampia rosa di tematiche che caratterizzano il carteggio, come le riflessioni politiche del Cantù (occasionate dal pretesto dell’omonimia del suo corrispondente) sulla legittimità di re Federico II e, negli anni post-unitari, sulla sorte della Chiesa. Cantù non mancò neppure di comunicare allo Sclopis le sue riflessioni amare sulla situazione difficile degli autori, preda dei loro editori; cui si aggiungono anche riflessioni generali sulla situazione scolastica e sul bisogno di docenti in grado di trasmettere buone nozioni e valori agli studenti. Dallo scambio epistolare emerge la stima reciproca di due personaggi che, l’uno dall’interno del Regno sabaudo, l’altro dal di fuori, assistono con spirito critico al rapido mutare della realtà sociale e politica e al formarsi dello Stato unitario.
Nicola Raponi (Università Cattolica) Il risveglio degli studi storici negli ultimi decenni dell’Ottocento: Cesare Cantù e la Società Storica Lombarda
Il Prof. Raponi indaga i motivi dello sviluppo e del successo della Società Storica Lombarda, per la cui costituzione Cesare Cantù giocò un ruolo di assoluto primo piano. L’indagine prende le mosse dalle esigenze, sentite in particolare in ambito regionale lombardo, di emanciparsi dalla Regia Deputazione di Storia istituita da Carlo Alberto e successivamente estesa alle provincie con anche una sezione lombarda. L’impronta dinastico-sabauda della Deputazione albertina andava stretta alla nutrita cerchia di storici lombardi, che avevano forze sufficienti per costituire, come fecero, un sodalizio fondato sulla libera associazione. Tale sodalizio venne favorito dalla politica adottata dalla destra storica, che, impossibilitata a finanziare in modo adeguato gli sudi storici locali, incoraggiò la libera iniziativa e l’auto-organizzazione. Cantù fu fondamentale per la vita e la crescita della Società Storica Lombarda in quanto il 1873, anno in cui assunse la direzione dell’Archivio di Stato di Milano – sorta di compenso per un’impossibile elezione a senatore – è lo stesso anno in cui prese avvio la pubblicazione del bollettino della Società Storica Lombarda: l’Archivio Storico Lombardo. Proprio Cantù diede le direttive essenziali e promosse la pubblicazione del periodico del quale curò l’articolo introduttivo, fornendo ai lettori un programma d’intenti improntato alla modestia e alla prudenza. Ben presto l’Archivio Storico Lombardo si segnalò per ampiezza e originalità di contributi, grazie alla collaborazione sia di giovani studiosi sia di storici affermati. Persino il Croce, spesso severo nel suo giudizio su Cantù, ebbe parole di elogio per l’apporto essenziale dato dal Nostro agli studi storici lombardi.
Maria Luisa Betri (Università di Milano)
Cantù e i Congressi degli Scienziati italiani.
La relazione mette in luce il contributo del Cantù ai Congressi degli Scienziati, che si tennero, annualmente e per nove anni consecutivi, dal 1839 e videro la partecipazione di Cantù in cinque occasioni con interventi in merito a un tema fortemente sentito dal Nostro: la situazione del mercato librario e la condizione degli autori. L’indagine sulle impressioni e sui contributi di Cantù ai Congressi è stata possibile anche grazie alla preziosa fonte di alcuni taccuini d’appunti ora conservati nella Biblioteca Ambrosiana. L’Autore si serviva di questi taccuini per annotare le proprie impressioni circa i luoghi visitati negli anni ‘40, anni di intensa attività scrittoria del Cantù, intento alla stesura della Storia Universale, ma nondimeno anni dedicati anche ai viaggi, alcuni dei quali nelle città sede di Congresso. Particolare rilievo ebbe il suo intervento in occasione del Congresso di Milano del 1844, nel quale si pronunciò all’insegna della moderazione di fronte alla visione catastrofica della situazione del mercato librario e alla proposta di Pomba, largamente accolta, di istituire a Livorno un “emporio del libro”. Ancora più significativo il non facile incarico affidatogli di stendere una Guida di Milano e dintorni, pensata per essere distribuita come omaggio. L’accettazione di questo impegno comportò per Cantù l’attenta e cauta riflessione sul modo di conciliare le diverse tendenze editoriali emerse dal Congresso. Altro contributo del Cantù si ebbe ai congressi di Genova (1846) e di Venezia (1847), ove espose il suo pensiero in merito alla costruzione della rete ferroviaria in Italia, auspicando che gli interessi politici non minassero il progetto di una ferrovia in grado di unire realmente l’intera penisola, che poteva dirsi ‘una’ – a parere del Nostro – sotto ogni punto di vista (linguistico, religioso, culturale) eccetto che politico.
Lorenzo Caratti di Valfrei ( Società Storica Lombarda)
La genealogia di Cesare Cantù
L’intervento mette preliminarmente in rilievo il valore della genealogia come scienza autonoma, non ridotta perciò a mero strumento delle discipline storiche, ma piuttosto a esse preliminare. La genealogia infatti, ricostruendo la famiglia di una personalità, permette di fornire l’ossatura al lavoro dello storico, in quanto garantisce di stabilire il milieu sociale culturale entro il quale si formò il personaggio in esame. Per la ricostruzione genealogica della famiglia del Cantù, lo spunto alla ricerca è la verifica della veridicità dell’asserzione del Cantù di essere “un uomo del popolo”. Svolta su registri di battesimo, matrimonio, morte e stato delle anime presenti nella parrocchia di Brivio e in diverse parrocchie milanesi, la ricostruzione genealogica attesta che per almeno sette generazioni, quindi sin dal ‘500, la famiglia di Cantù può dirsi autenticamente briviese. L’indagine ha inoltre portato alla luce alcune curiosità e peculiarità della famiglia Cantù, a partire dal cognome, che si stabilizza nella forma attualmente nota verso la fine del ‘700, presentando in precedenza un’oscillazione tra le letture ‘Canturio’ e ‘Canturello’. Sempre per quanto riguarda il nome, è stata rilevata un’anomalia rispetto all’uso corrente, cioè la presenza, nelle sette generazioni precedenti a Cesare Cantù (per un totale di 51 persone), di almeno 30 nomi di battesimo diversi, a dimostrazione che non vi era la consuetudine di un ‘nome di famiglia’. Ultimo significativo dato, per dare risposta al quesito iniziale, è il rilevamento della presenza di un nome distintivo per ogni membro della famiglia Cantù (‘Signore’, ‘Messere’, ‘Madonna’), nonché l’accertamento della presenza di servitori nelle famiglie degli antenati di Cantù. Questi ultimi dati confermano che la famiglia Cantù non può affatto definirsi ‘popolare’. Del resto l’affermazione di Cantù di essere “uomo del popolo” potrebbe essere ‘in buona fede’, in quanto egli ebbe presente solo la condizione economica della generazione del nonno del padre, che avevano notevolmente abbassato, con dissesti finanziari, il livello economico della famiglia.
Franco Buzzi (Biblioteca Ambrosiana)
Tra storia e filosofia: l’epistolario Cantù-Rosmini
Le circa 50 lettere scambiate tra Cantù e Rosmini negli anni 1837-54 rivelano una profonda amicizia e stima tra i due, evidente per le richieste di collaborazione e il frequente scambio d’opinioni. Si pensi anzitutto alla segnalazione di Cantù all’amico del manuale di filosofia del Tennemann, allora in uso, che riporta, fraintendendolo, il pensiero di Rosmini. É questa l’occasione per uno scambio di opinioni in merito al modo spesso dozzinale in cui si pretende di riassumere ed esporre il pensiero filosofico altrui. Altri dati significativi permettono di cogliere la stima e la collaborazione tra i due: da un lato Rosmini chiede aiuto per la pubblicazione di un libretto sulla filosofia del sensista Cousin, pubblicazione che si concretizza nelle pagine dell’Indicatore proprio grazie alla mediazione di Cantù. D’altra parte lo stesso Cantù rivela la sua alta considerazione per il pensiero di Rosmini nel sottoporgli l’Introduzione alla sua Storia Universale e chiedendone un giudizio. Rosmini, pur lodando l’immane lavoro del Nostro come monumento di letteratura italiana, non nasconde alcune riserve circa il ruolo assegnato da Cantù alla religione cristiana. Di pari onestà intellettuale la replica del Cantù: ringrazia Rosmini delle sue sincere considerazioni, ma non ne accetta in tutto le critiche. Con la stesura della Storia Universale si infittisce anche la collaborazione tra i due: Cantù propone a Rosmini di scrivere un’introduzione per un’antologia di autori, nonché alcune considerazioni sulla filosofia orientale; il tutto per un volume di filosofia incluso nella Storia Universale. Pur dichiarandosi felice che l’amico intraprenda la stesura di una sezione filosofica, Rosmini ricusa l’offerta indicando con chiarezza le ragioni teoriche del suo rifiuto: l’inadeguatezza dello spazio di un’introduzione per una esposizione chiara e al riparo di fraintendimenti, e le difficoltà di trattare la filosofia orientale in quanto priva di ragionamento, cosa che impedisce al Rosmini di considerarla filosofia a pieno titolo. Rosmini non ricuserà però la successiva proposta di Cantù: la stesura di un compendio di filosofia, sempre per la Storia Universale. Da ultimo la densità del rapporto intellettuale tra i due si rivela nello scambio reciproco dei primi fascicoli della Storia degli Italiani di Cantù e della Logica di Rosmini. Ma l’epistolario rivela anche le trame di un’amicizia che coinvolge due grandi del panorama culturale, Tommaseo e Manzoni. È Cantù infatti a mettere al corrente Rosmini del matrimonio delle figlie di Manzoni e a suggerirgli la lettura delle Memorie del Tommaseo, nelle quali si dedicano a Rosmini parole di alta considerazione. Amicizia e affetto personale completano dunque una profonda e sincera stima intellettuale.
Giorgio Montecchi (Università di Milano)
Gli interessi e le ansie di uno storico: i libri di Cesare Cantù presso l’Università degli studi di Milano
La relazione prende le mosse dal concetto di ‘monumento’. Numerosi sono i monumenti innalzati nell’800 a personaggi allora famosi, ma nessun monumento a Cesare Cantù. Ciò perché egli fu un vero e proprio monumento vivente, dal momento che gli furono dedicate, mentre ancora era in vita, scuole, biblioteche e istituti. La ‘monumentalità’ del Cantù non fu semplicemente quella della sua persona, egli costruì a se stesso un vero e proprio ‘monumento di carta’ quando portò a termine la lunga fatica della sua Storia Universale. Questo ‘monumento di carta’ non è privo del plauso degli entusiasti né delle critiche dei detrattori: da un lato infatti Busnelli tesse l’elogio altisonante di un Cantù già ottuagenario, dall’altro il Croce con sarcasmo definisce la Storia Universale “un mobile di casa”, “un quadro di natura morta”. I monumenti cartacei del Cantù non sono dati solo dalla sua Storia Universale, ma anche dall’insieme delle sue opere (un cospicuo gruppo di scritti che arriva sino a 500 titoli) nonché dai libri della sua biblioteca, circa 2500 testi ora pervenuti all’Università degli Studi di Milano. L’analisi e lo studio della biblioteca del Cantù, al di là delle difficoltà di carattere tecnico, relative alle scelte metodologiche per la catalogazione, si rivela di grande interesse per cogliere l’orizzonte culturale del Nostro, capire quali fossero i suoi interessi e soprattutto quali i suoi punti di riferimento. Emerge ad esempio, nell’analisi in parallelo della biblioteca di Cantù da una parte e delle opere da lui composte dall’altra, la prova di un’attenta assimilazione e riuso del materiale a sua disposizione tanto che si può quasi individuare, per ogni libro della biblioteca di Cesare Cantù, un libro corrispondente da lui scritto che testimonia un processo di riflessione, assimilazione e rielaborazione.
Marco Ballarini (Biblioteca Ambrosiana)
Cantù-Ceriani: un epistolario ‘di servizio’?
L’interrogativo che titola l’intervento di Mons. Ballarini non è una mera domanda retorica, ma una vera e propria ipotesi di lavoro. Difficile infatti stabilire la natura del carteggio tra Cantù e Ceriani, che risulta ‘terremotato’ a motivo dell’assidua frequentazione – di fatto quotidiana – dei due corrispondenti. Questa stretta frequentazione fa sì che il carteggio stesso poggi su uno scambio di informazioni e di richieste orale, non più recuperabile e quindi spesso di difficile ricostruzione, in quanto dato per sottinteso nelle lettere stesse. In questa frammentarietà di informazioni lo studio si propone di mettere in luce la natura del rapporto che univa il Nostro e un uomo di vasta cultura come il Ceriani, esperto di lingue orientali, con particolare predilezione per gli studi siriaci. Ceriani fu custode per 52 anni del Catalogo della Biblioteca Ambrosiana e soprattutto si occupò personalmente della stesura dei Monumenta Sacra et Profana, opera pensata come prodotto collettivo dei Dottori dell’Ambrosiana ma di fatto curata in massima parte dal Ceriani. Molte delle carte hanno come oggetto una convocazione (ad es. il Ceriani fu convocato come Professore per gli esami di paleografia di Stato); qualora queste comunicazioni avvengano a nome della carica che Cantù e il Ceriani ricoprivano, il tono della missiva si fa decisamente formale, per tornare più informale e talvolta scherzoso nelle comunicazioni private e confidenziali. Lo dimostra l’uso di una formula d’esordio estremamente lusinghiera da parte di Cantù, che fa precedere le proprie richieste al Ceriani dall’espressione “Ella che sa tutto”, alla quale, in occasione della restituzione al Cantù di una poesia a lui sconosciuta, scherzosamente Ceriani rispose: “vede che non so tutto?” per concludere in modo faceto e sentenzioso insieme dichiarandosi pronto a dare tutto ciò che sa – eccetto il catechismo – per sapere tutto ciò che non sa! L’epistolario in definitiva rivela da un lato la complessità e la profondità di un rapporto di consuetudine e ammirazione per le rispettive competenze professionali, dall’altro evidenzia l’interesse di Cantù per le lingue orientali, sulle quali chiedeva spesso informazioni al Ceriani stesso nonché agli altri Dottori dell’Ambrosiana.
Alessandro De Servi (Università dell’Insubria)
Il pensiero politico di Cesare Cantù
L’intera riflessione politica di Cantù fa perno su un principio fondante: il ‘giusto ordine’; ciò significa che il Nostro vede nella struttura gerarchica della società l’ossatura indispensabile alla stabilità sociale. A questo principio fondativo si somma una concezione dell’incidenza della religione nella storia che gli fa interpretare il suo ruolo di storico quasi come un sacerdozio laico. Contro ogni forma di socialismo e di statalismo, Cantù ritiene la ‘legge’ uno strumento necessario solo nel momento in cui l’uomo non è più in grado di seguire, da solo, i dettami della religione. Per questo motivo è ostile a tutti i processi storici che hanno lasciato l’uomo a fare i conti con una libertà che è incapace di gestire, col rischio di sfociare nell’anarchia. Questa è la motivazione alla base della sua accusa alla Rivoluzione francese, che ha dato agli uomini un principio di uguaglianza senza la maturità e i mezzi per gestirlo. Ed è anche il motivo per cui deplora e contrasta ogni mutamento politico sorto da rivoluzioni e cospirazioni, ritenendo invece che solo i lenti e pacifici mutamenti possono migliorare un sistema di governo. La sua posizione politica può definirsi solo apparentemente liberale, perché di fatto si discosta dal pensiero liberale sia nella concezione dello Stato che in quella della libertà del singolo: il governo infatti deve svolgere una funzione di guida e direzione, e ciò vale nonostante l’affermazione apparentemente liberale che ‘il governo migliore è quello che governa meno’; Cantù è anzi favorevole a un corporativismo di matrice cristiana, come strumento adatto a riorganizzare le istituzioni politiche cancellate dai moti rivoluzionari. Anche la sua idea di libertà individuale rientra in quest’ottica: il singolo ha valore solo se si colloca nella comunità e per la comunità; di qui l’insistito elogio alla costituzione di corpi intermedi per il bene del governo. In definitiva emerge il profilo di un Cantù deciso esponente del guelfismo, convinto da un lato che la morale cristiana debba costituire la base della società, ma dall’altro che sia impossibile l’attuazione di un governo temporale della Chiesa.
Brivio 12 Novembre 2005
SILVIA MORGANA (Università degli Studi di Milano)
I rapporti tra Ascoli e Cantù
Nel 1852 il giovane Ascoli, formatosi come linguista da autodidatta con particolare interesse alle lingue orientali, visita a Milano il Cantù, già affermato intellettuale, letterato e storico milanese; incontro narrato nei dettagli dal linguista in un suo taccuino (Note letterario-artistiche minori…). Ascoli ventitreenne incontrò Cantù nella speranza di trovare collaborazione per un periodico di linguistica sulle lingue orientali. La descrizione dell’abboccamento permette di cogliere la differenza di fondo tra i due: divulgatore Cantù, teso a trovare il senso del lavoro intellettuale nella possibilità di comunicazione, nell’effettivo raggiungimento delle masse, nel riscontro a livello sociale; ricercatore l’Ascoli, interessato alla possibilità della ricerca erudita anzitutto, anche, al limite, nell’impossibilità di raggiungere un grande pubblico. Ascoli non otterrà la collaborazione richiesta (del periodico usciranno soltanto tre numeri), ma dopo l’uscita del primo numero, nel 1854, ha inizio il rapporto epistolare tra i due. Non è uno scambio di lettere intenso, anche perché le occasioni di incontro e contatti diretti erano numerose, dal momento che entrambi parteciparono alla vita delle più attive istituzioni culturali. Di particolare interesse una lettera in cui, ringraziando per aver ricevuto in dono il primo numero dell’Archivio Glottologico Italiano, Cantù commenta i Saggi ladini ascoliani da dichiarato non esperto, ma esprime anche un’interessante considerazione sul tema della povertà linguistica, vista come conseguenza della povertà del movimento intellettuale. Nella lettera Cantù manifesta un atteggiamento molto prudente in merito alla polemica ascoliana contro Manzoni, ma darà ampio spazio al proemio antimanzoniano dell’Ascoli nella recensione che pubblicherà – sull’Archivio Storico Italiano – pochi mesi dopo, dove sottolinea lo spazio importante dato allo studio dei dialetti.
Scomparso il Cantù, Ascoli lo ricorda come “l’uomo a cui fu dato di istruire tre generazioni di italiani negli studi letterari e storici di ogni maniera”, rendendo alto merito alle sue doti di divulgatore di cultura.
PAOLO BARTESAGHI (Associazione Amici del Parini)
Il carteggio con Vieusseux
L’epistolario tra Cantù e Vieusseux, ancora in parte inedito, va dal 1832 al 1863. Le lettere si trovano in parte a Firenze (nella Biblioteca Nazionale Centrale e nell’Archivio Vieusseux), in parte a Milano, alla Biblioteca Ambrosiana.In tutto ci sono più di 130 lettere (alcune in copia ma affidabili), ma si ipotizza che le lettere scambiate tra i due siano molto più di quelle già individuate. La prima lettera di Cantù al Vieusseux testimonia l’accettazione di Cantù a collaborare all’Antologia. Nella lettera si fa il nome del Tommaseo e fu infatti Tommaseo, dalle pagine dell’Antologia, a far conoscere Cantù agli italiani e a creare le premesse per la conoscenza tra Cantù e Vieusseux. L’incontro tra i due ha perciò come base il terreno del giornalismo e il comune interesse per la storia. Dopo la carcerazione del 1833-34 Cantù riannoda i rapporti con il Vieusseux, dimostrando il coraggio e il desiderio di voler continuare nella sua opera, e le lettere degli anni successivi (1835-37) vertono spesso sul tema della pubblicazione dei libri per giovani, ai quali Cantù in quegli anni si dedica (infatti partecipa al concorso bandito da Lambruschini a Firenze, ma non lo vincerà, battuto dal Giannetto). Non mancano anche lettere di tema politico, da cui Cantù lascia trasparire il suo amore per la libertà, la sua diffidenza verso la monarchia sabauda, l’interesse e la fiducia, nonostante tutto, nel popolo.
Cultura, editoria, censura, diritto d’autore, educazione del popolo, accademia della Crusca, lingua italiana, ma anche situazioni personali: tanti sono i temi toccati da questo epistolario. Nonostante la vastissima rosa di argomenti, c’è un dato di fondo: si delinea attorno ai due (soprattutto al Vieusseux) il formarsi di un gruppo di intellettuali che si configurerà poi come un la futura classe politica dirigente. Sia Cantù che Vieusseux contribuiscono a trasformare la cultura storica in cultura politica.
ANGELO STELLA (Università degli Studi di Pavia)
Un’amicizia non corrisposta. Ancora di Cantù verso Manzoni
Il rapporto tra Cantù e Manzoni si configura di fatto come un rapporto negato. Da Sondrio, Cantù collabora all’appendice di un vocabolario della lingua italiana, contribuendo con l’introduzione di alcune parole chiave presenti nell’opera manzoniana. L’ispirazione al Manzoni di queste postille non fu dichiarata, così come del resto Cantù cercò di celare l’ispirazione manzoniana nelle sue prime poesie, retrodatandole. La tendenza costante di Cantù alla continua anticipazione del Manzoni, possibile a motivo della loro personale frequentazione, si può cogliere in diversi interventi: nel Saggio del Romanzo Storico (1831) Cantù accenna a una sorta di logorio del Manzoni in merito al valore del romanzo storico, che però il pubblico conoscerà solo 20 anni dopo con la pubblicazione del saggio manzoniano (1850). Analogamente la Cicalata sugli idiotismi (1835) anticipa per certo verso il Sentir Messa del Manzoni. Infine nel 1839 Cantù pubblica gli atti del processo della ‘storia della colonna infame’, precedendo nuovamente l’autore de I Promessi Sposi. Dopo quest’ultima anticipazione sui suoi lavori, Cantù viene messo alla porta.
Tra il ’76 e l’84, tra la caduta della destra e l’affermarsi della sinistra, Cantù scrive una sorta di vademecum sociale, un libro intitolato Attenzione!, in cui si dà ampio spazio al valore della parole. Per dimostrare che non esistono sinonimi, Cantù analizza e distingue alcune coppie di parole (ad esempio: fallo-errore, vedere-guardare, carità-filantropia). L’analisi di questi termini permette di costruire una sorta di ‘vocabolario ideologico’ canturiano che può utilmente essere raffrontato con quello di Manzoni. Questo ‘vocabolario ideologico’ comprende un’ampia gamma di definizioni, da quella di ampio respiro di ‘governo democratico’ (caratterizzato dalla prepotenza), a quella concreta dei ‘giornalisti’, “masnadieri della penna”, “vulgo scribacchiante”.
SARA PACACCIO (Università degli Studi di Pavia)
Per una verifica dell’itinerario stilistico di Cesare Cantù: “La Setajuola”
La Setajuola è pubblicata per la prima volta da Ostinelli nel 1841, poi rimaneggiata fino al 1871. Inoltre nel 1871 essa compare sia nelle Novelle Lombarde, sia come capitolo del Portafoglio di un operaio. Le varie elaborazioni della novella determinano modificazioni sotto differenti aspetti: nella struttura della pagina (impaginazione moderna delle battute di dialogo diretto; uso delle virgolette per il discorso diretto); nell’uso interpuntorio (modernizzazione verso una maggiore mimesi dell’oralità); nella fonetica (aderenza alle tradizioni letterarie e alle trascrizioni grammaticali correnti). Nell’uso grammaticale mostra una tendenza antimanzoniana (mantiene il pronome soggetto di terza persona) e rivela una lingua bloccata a lungo sul modello della ventisettana del Manzoni. Nella sintassi invece, in linea col Manzoni, mostra la volontà di creare uno scarto non eccessivo tra la voce del narratore e quella dei personaggi. Le scelte lessicali sono improntate a un progressivo adeguamento all’uso toscano e una ricerca crescente di mimesi del parlato: accoglie espressioni dell’uso popolare toscano e contemporaneamente espunge forme lombarde. La scelta del lessico vicino all’uso vivo è particolarmente spiccata per quanto riguarda il lessico della filanda. L’inserimento della novella entro il Portafoglio ne determina una particolare revisione lessicale, dovuta all’intento didattico e ideologico, nonché al respiro nazionale dell’opera: vengono smussate le escursioni sia verso la letterarietà, sia verso gli usi eccessivamente popolari, tenendo come punto di riferimento l’uso corrente toscano.
Le vie correttorie de La Setajuola si muovono dunque non sempre nella stessa direzione, alcune volte verso l’uso vivo, altre verso la lingua letteraria. In ogni caso il testo nella sua struttura non subisce sostanziali modificazioni.
BERNARDINO OSIO (Segretario Generale della Unione Latina)
Alcune lettere familiari di Cesare Cantù
L’archivio della famiglia conserva non meno di 400 lettere di Cantù. Esse vanno dal 1830 circa sino all’estrema vecchiaia del Cantù (1894), scritte con lettura tremante. Sono lettere rivolte per lo più ai membri della famiglia e alle due figlie. Molte lettere sono cicalate – come le definiva Cantù – con notizie sul tempo, sulle malattie, gli amici, i bachi da seta, la sua coltivazione dell’uva. Ogni lettera contiene una frase o un lampo di genio; alcune di esse offrono anche dei piacevoli ritrattini, pennellate di personaggi illustri conosciuti da Cantù. Non mancano anche le invettive, tra cui una contro Vittorio Emanuele II nell’occasione della breccia di Porta Pia. Ci sono anche lettere sarcastiche o comiche. Questo epistolario è dunque prezioso per poter conoscere la vita intima di una personalità così sfaccettata. Si dà lettura di una lettera familiare alla figlia Rachele da Sala Comacina, che mostra l’attenzione da poeta del Cantù al mutare dei colori e degli aspetti della natura. Dalla lettera però emerge, con la descrizione della processione del Corpus Domini, anche il pensiero politico del Cantù, critico verso gli uomini di governo della nuova Italia, che agivano sotto ispirazione di acceso anticlericalismo. È il giugno del 1870, poco prima della presa di Roma, un momento di grande tensione con Pio IX. Emerge dalle righe della lettera la posizione del Cantù neo-guelfo, che desiderava un’Italia ancorata alle sue tradizioni cattoliche che hanno radici profonde nel medioevo e nelle libertà comunali.
ALESSANDRO ROVETTA (Università Cattolica di Milano) Cesare Cantù e gli Artisti
Il contributo di Cantù alla storiografia artistica è stato sottovalutato, perché una metodologia scientista nuova ne ha surclassato i risultati. Occorre invece far interagire la personalità di Cantù storiografo d’arte e quella di Cantù ideologo d’arte per comprendere il valore del suo contributo. Il suo profilo di storiografo d’arte emerge nell’opera Milano e il suo territorio (1854). Dal capitolo dell’opera dedicato all’architettura emerge da un lato l’importanza attribuita al dettaglio esemplificativo, dall’altro un’idea progressiva della storia dell’architettura (come della storia in genere); secondo Cantù l’architettura cambia perché cambiano le situazioni storiche e politiche. Cantù è un medievalista convinto: il gotico è il momento in cui l’architettura ha più carattere e lo spirito cristiano dà senso alle forme. Egli individua una specie di linea di continuità nella storia dell’architettura, che parte dal romanico, passa attraverso il gotico e giunge allo stile bramantesco. Nell’architettura bramantesca Cantù i segni del futuro di Milano e quindi ne cerca gli elementi di contiguità col Medioevo. L’arte e l’architettura moderne, a suo parere, non valorizzano l’espressione e il carattere, ma hanno reso Milano una città funzionale: l’architettura del suo tempo non è eccezionale, ma ha migliorato la qualità della vita. Le riflessioni teoriche di Cantù (L’archeologia delle belle arti) indicano invece le qualità fondamentali dell’opera artistica: ‘unità’ (concetto classico) e ‘convenienza’, ovvero “profondo senso del vero e delicato senso del bello”. La ‘convenienza’ in architettura ha come corrispettivo il ‘carattere’ in scultura, e la ‘espressione’ in pittura.
Su queste basi si comprendono gli interventi di Cantù ai congressi artistici di Milano (1872) e di Torino (1880), nei quali esprime il proprio concetto di restauro architettonico: badare che nulla alteri il ‘carattere’ di un’opera architettonica; il carattere non è necessariamente quello impresso inizialmente dall’architetto, ma può essersi costruito nel tempo, frutto di un processo storico di continui interventi.
FRANCO MONTEFORTE (Giornalista)
Cesare Cantù e Jacob Burckhardt: letture parallele del Sacro macello di Valtellina del 1620
La parte più originale de La storia della città e della diocesi di Como è il capitolo sulla vicenda Valtellinese, e infatti nel 1831 Cantù lo ripubblicò come volumetto a sé dal titolo La rivoluzione valtellinese del XVII secolo. L’espressione ‘rivoluzione’ è dovuta al taglio ideologico dato all’opera: Cantù pensa ai primi moti risorgimentali italiani e vede nell’episodio della Valtellina (invasioni, guerre, peste) un esempio di ciò che potrebbe capitare all’Italia. Il passaggio a una lettura in chiave più religiosa che politica (passaggio significativo solo nel titolo, perché il testo rimane pressoché lo stesso) si ha nell’edizione del 1853: Il sacro macello di Valtellina… Cambia il punto di riferimento civile: la sua polemica è orientata contro il cattolicesimo intransigente, che rischia di portare a risultati opposti a quelli dell’insegnamento della chiesa. Dall’analisi delle proporzioni del massacro (solo 9 % erano Grigioni, gli altri quasi tutti italiani) Cantù non sembra trarre la conseguenza ultima, cioè che il ‘sacro macello’ fu un regolamento di conti tra valtellinesi; ciò accade perché la sua attenzione è mirata al punto di vista religioso: l’origine di tutti i guai è la riforma protestante.
Burckhardt lesse il testo di Cantù del ’31 e se ne servì per una conferenza a Basilea nel 1844. Nel suo intervento mostrò un punto di vista antitetico al Cantù: ritenendo il problema religioso un falso problema. Il punto di riferimento di Burckhardt è la situazione della Svizzera dei primi anni ’40 dell’800, caratterizzata da una forte ostilità tra cantoni cattolici e protestanti. Secondo Burckhardt la Svizzera vive un conflitto politico travestito da conflitto religioso; perciò egli propone l’esempio della Valtellina, altro caso in cui vi fu un conflitto politico e geopolitico, mascherato da conflitto religioso.
É perciò possibile confrontare due letture dello stesso episodio storico: una dal punto di vista di un cattolico italiano, l’altra dal punto di vista di uno svizzero protestante. Entrambi avevano l’intento di costituire un monito a quanto potrebbe accadere nella contemporaneità, ma la spiegazione dei medesimi fatti è tessuta in modo diametralmente opposto.
DONATELLA MARTINELLI (Docente)
Il carteggio con Tommaseo
Il carteggio tra Cantù e Tommaseo copre gli anni dal 1828 al 1864, per un totale di circa 200 lettere. L’analisi del carteggio pone a confronto due mentalità simili e diverse: entrambi soli e coerenti nel loro cammino, sono accomunati dall’impegno per il bene superiore della società (Storia Universale – Dizionario della Lingua Italiana). Entrambi ritengono di aver passato la gioventù in una storia difficile ma piena di fermento e di ideali, in cui l’Italia era tutta da fare. Avevano cercato i segni dell’identità italiana da costruire nel passato: Cantù nell’età medievale dei comuni, Tommaseo nella repubblica del Savonarola; visioni dominate entrambe da un senso delle autonomie regionali, unite dalla fede. Perciò la nuova Italia sabauda non piace a nessuno dei due. Il carteggio è ricco di riflessioni sull’attività editoriale; sull’attenzione all’educazione ai giovani, sull’educazione popolare, sul senso vivo della storia antica e contemporanea. Raramente affiorano tensioni; su tutto domina una coscienza alta di sé e della missione del letterato. Manifestano l’apprezzamento dell’altrui operato e si scambiano consigli su problemi comuni (ad esempio su come affrontare la critica avversa).
I Sinonimi, sin dal loro apparire, costituiscono un argomento privilegiato nel carteggio. L’ammirazione di Cantù è evidente da subito; inoltre egli propone giunte e correzioni, appoggiando l’idea del Tommaseo di corroborare l’uso toscano con gli esempi degli autori. In una lettera non datata Cantù invia a Tommaseo un proprio libro di note alla Crusca (ora identificato e conservato nella biblioteca di Zara). Probabilmente in occasione della nomina di Tommaseo ad accademico della Crusca, Cantù volle dare il suo contributo inviandogli i propri spogli. Si tratta di giunte di carattere letterario, di prosa e poesia, che appartengono agli anni di Cantù a Sondrio. Purtroppo Tommaseo morì prima di scrivere la prefazione al Dizionario della Lingua Italiana e quindi non si può sapere quale spazio avrebbe riservato a Cantù e in quale misura si sia effettivamente giovato del suo contributo.
Milano 2 Dicembre 2005
MATILDE DILLON WANKE (Università degli studi di Bergamo)
La Margherita Pusterla e il romanzo storico
La Margherita Pusterla nasce in una fase di ripiegamento del romanzo storico, quando Manzoni già rifletteva criticamente sul valore di un’opera mista di storia e invenzione. Antecedente al fortunato romanzo del Cantù è una lettera del ‘romantico brianteo’ (1831), in cui Cantù scoraggia gli scrittori dal comporre romanzi storici. La critica mossa al romanzo storico è la stessa sulla quale riflette Manzoni: la creazione di un’opera ibrida che non è né storia né romanzo. Cantù inoltre osteggia in modo particolare la ‘moda’ diffusa di scrivere romanzi storici e conclude asserendo che i romanzi storici dovrebbero essere scritti dalle donne, perché esse sole hanno particolare sensibilità di penetrazione psicologica.
Eppure, nonostante questo antecedente, Cantù scriverà qualche anno dopo la Margherita Pusterla. Per la maturazione di tale scelta lo spartiacque del carcere segna una svolta importante. In realtà Cantù non contraddice il suo pensiero precedente, perché se è vero che il suo romanzo ha come imprescindibile modello l’opera manzoniana, esso per certi versi può considerarsi opposto al lavoro di Manzoni: pochissima e quasi nulla è l’invenzione, mentre abbonda – nel gusto della divagazione illustrativa, storica, archeologica, geografica, ambientale – un versante metanarrativo di Cantù che si rivela come l’applicazione pratica della lettera del ‘romantico brianteo’.
Intento animatore dell’opera è ottenere una ‘storia illustrata’, che proponga il confronto costante con il presente. La storia è vista in ottica militante e nella sua rievocazione in struttura di romanzo si cela l’intento di educare il popolo. Le stesse situazioni narrative dell’opera sono in ultima analisi situazioni letterarie, ispirate ad altre opere (dalla Divina Commedia a Le mie prigioni) e dunque a situazioni già topiche della letteratura.
Cantù chiude il romanzo indicando espressamente le sue fonti per la storia di Milano, in cui però Margherita appare come personaggio negativo e diabolico, opposto al ritratto che ne restituisce Cantù. Proprio questa incongruenza è spia che altra è la vera fonte canturina: la storia di Milano di Verri, in cui Margherita Pusterla è dipinta con gli stessi tratti che le conferisce Cantù.
GABRIELLA CARTAGO (Università degli studi di Milano)
Dall’osservatorio linguistico di Cesare Cantù
Cantù inaugura la sua lotta al francesismo già nel 1835-36. Nella Cicalata infatti accusa chi ritiene la propria lingua inadatta alla scienza e alla conversazione e scusa con ciò il ricorso alla lingua francese; l’accusa del Cantù è diretta al Cesarotti, responsabile storico del lassismo, nonché a giornalisti e traduttori, principali imputati di gallicismo. In età post-unitaria il problema dell’influsso francese diventa uno degli aspetti dell’educazione linguistica nazionale e Cantù continua ad esserne oppositore, come testimonia la netta posizione assunta nelle Questioni di lingua.
Due manoscritti inediti presenti nel fondo Cantù della biblioteca ambrosiana permettono di entrare nel laboratorio linguistico del Cantù. Un quaderno, intitolato Modi francesi, contiene circa 200 singole voci e locuzioni francesi con traduzione italiana; questo quaderno rimane nell’ambito della comparatistica. Il secondo quaderno, più interessante, è intagliato a rubrica e intitolato Solecismi italiani: contiene circa 600 voci distribuite su due colonne (ove la seconda propone il corrispettivo della prima). Alla lettera F della rubrica sono raccolte una quarantina di voci sotto il titolo franzesismi; ma in realtà i francesismi costellano tutta la raccolta. Poche sono le parole francesi presentate secondo la grafia originale e in ciò Cantù non segue l’uso della rifrancesizzazione di alcune espressioni in precedenza adattate all’italiano. I francesismi annotati appartengono più che altro al secolo XVIII, con anche alcuni termini più moderni, di inizio ’800.
Vi sono neologismi derivativi, bersaglio costante e polemico di tutti i puristi dell’800, e anche deverbali a suffisso zero, diffusi nella lingua degli uffici e anch’essi osteggiati dai puristi.
Difficile stabilire singole fonti del materiale raccolto da Cantù; il frequente disordine delle voci fa pensare ad una trascrizione da una sede precedente con numerosi interventi successivi. È probabile che Cantù lavorò a lungo a questi quaderni senza mai pensare alla pubblicazione e servendosene invece per sé.
ADA GIGLI MARCHETTI (Università degli studi di Milano)
Cesare Cantù e i suoi editori
Nel primo ’800 si comincia a costruire il modello dell’intellettuale moderno, libero ma non estraneo ai condizionamenti sociali. Cantù fu primo protagonista di questo cambiamento; sostenitore del nuovo ruolo dell’intellettuale nella società, riteneva che l’indipendenza economica fosse unica garanzia per la libertà di giudizio. Tale indipendenza, finito il tempo della protezione dei mecenati, si doveva ora ottenere con la forza del proprio lavoro intellettuale. Cantù dunque fu in grado di convertire in attività professionale la sua condizione culturale. In questo nuovo scenario si evidenzia l’importanza del rapporto tra l’autore e i suoi molti editori (più di cento). Più di ogni altro autore, Cantù fu in grado di capire ciò che di volta in volta gli editori si aspettavano da lui. Mantenne una fitta corrispondenza con tutti i suoi datori di lavoro, trattando sia questioni contrattuali o tecniche, sia allargando il campo all’amicizia, alla riflessione sulla nascita di un mercato editoriale italiano. Si scagliò contro la censura, la contraffazione, la pirateria (difficile da scalzare perché, spiega Cantù nel suo carteggio con Vieusseux, buona fonte di entrate per gli editori).
Rapporti più fitti, improntati a stima e amicizia, intrattenne con Vieusseux e Pomba. Tra i due forse proprio con Pomba Cantù ebbe una relazione più profonda e intima. Le lettere tra i due vanno dalle richieste di reciproco aiuto, ai consigli, ai favori, alle più ampie riflessioni, agli sfoghi piccati.
Con altri editori con i quali mancava un consolidato legame, la cruda realtà del rapporto conflittuale autore-editore emerge con chiarezza (ad esempio, Cantù accusa Treves di non occuparsi con sufficiente impegno della vendita delle sue opere).
Cantù novantenne continua ad essere oggetto di interesse per gli editori, basti pensare che Moriondo, direttore della UTET ed erede di Pomba, continua a voler stampare le opere del Cantù già nonagenario, cercando di legarlo soltanto alla propria casa editrice.
WILLIAM SPAGGIARI (Università degli studi di Milano)
La scrittura breve di Cesare Cantù: i racconti
I racconti di Cantù sono rilevanti nella prosa novellistica dell’800, sia per la loro estensione cronologica di quasi 60 anni, sia per le numerose cure testuali, sia per la varietà degli indirizzi. Si va dalle novelle in versi, ai racconti che tendono al romanzo, alle novelle apparse nei giornali, a materiali narrativi per l’infanzia.
In questo ampio bacino, è possibile individuare un blocco di una quarantina di testi narrativi continuamente ritoccati e raffinati negli anni. Il periodo cronologico di rimaneggiamento segna un’attività esercitata con impegno assiduo nel periodo successivo all’esperienza del carcere e all’esclusione dai ruoli dell’insegnamento.
Di particolare interesse è la raccolta uscita da Tendler nel 1847, notevole per il numero di novelle raccolte e per la dichiarata collaborazione tra autore ed editore, impegnato nell’operazione editoriale di avvicinamento della cultura italiana a quella tedesca. Alle novelle delle tre sezioni gli editori hanno alternato alcuni scritti inediti del Cantù, come compendio delle parti narrative.
Le novelle (quasi tutte riconducibili agli anni 1832-36), che occupano due terzi dell’opera, hanno la misura ora di racconti brevissimi, ora di racconti ampi sino alle quasi 100 pagine de La Madonna d’Imbevera. Queste novelle contengono le tinte fosche del medioevo feudale, sentenze morali, realismo documentario, pedagogia dei buoni sentimenti, stile variegato tra ricercatezze e dialettalismi, sfiducia nella giustizia degli uomini, conclusioni tragiche.
Interessante anche il filone della narrazione di viaggio o della cronachistica di catastrofi naturali, di cui sono un esempio La Valanga e Un viaggio piovoso e la Gabriella. In questi testi il tono narrativo passa dal patetico al giornalistico, dalla cronaca di viaggio al romanzesco, con il predominio della tendenza centrifuga del Cantù novelliere, che prendere il sopravvento su tutti questi complessi e molteplici aspetti.
MARCO BOLOGNA (Università degli Studi di Milano)
Cesare Cantù e gli archivi
Nel primo volume sui Documenti diplomatici tratti dagli archivi milanesi di Luigi Osio (1864), Cantù si avvicina ai problemi dell’ordinamento dell’archivio, giudicando di utilità pratica l’ordinamento peroniano effettuato da Osio. Nell’opera Gli archivi e la Storia, Cantù analizza la contemporanea situazione istituzionale degli archivi, vedendo nella divisione delle competenze tra Ministero dell’Interno e Ministero della Pubblica Istruzione il motivo del malfunzionamento degli archivi, e auspicando perciò l’unificazione dei due Ministeri. Alcune delle carenze lamentate vennero poi decise per decreto, ma Cantù, pur avendone l’obbligo, non applicò nulla di quanto decretato. Nel 1873 Cantù è nominato direttore dell’Archivio di Stato di Milano e in seguito soprintendente degli Archivi Lombardi; con la scelta di nominare uno storico alla direzione degli Archivi, il governo manifestava l’intenzione di rompere col vecchio sistema per aprirsi a nuove prospettive. Si sono avanzate ipotesi circa la scelta politica di conferire a Cantù la carica di direttore per sopperire alla mancata nomina a senatore; del resto le medesime ragioni politiche che gli impedirono la nomina a senatore agevolarono invece la nomina alla direzione dell’archivio, perché ciò lo poneva sotto stretto controllo del prefetto.
Dopo la nomina, le perplessità dei consiglieri dell’Archivio nei confronti di Cantù andarono crescendo, a causa delle frequentissime proposte di scarto di documenti, proposte in merito alle quali vi era il sospetto, fondato, che fossero frutto dello sceveramento peroniano (metodo vietato dalla nuova normativa).
Dalle relazioni semestrali (anni 1874-1882) di Ghinzoni, si può conoscere sia quanto venne inventariato, sia come vennero svolte le archiviazioni e si ha la dimostrazione che Cantù proseguì per anni l’applicazione del metodo peroniano.
Se il Ministero tenne un atteggiamento abbastanza permissivo verso il nuovo direttore, il Consiglio degli Archivi ebbe invece un atteggiamento molto critico e, dopo la sua morte, deplorò il lavoro di Cantù. Egli resta infatti un grande studioso d’archivio, ma mai fu archivista. Perseguì lo scopo della consultabilità dei documenti, ma la scientificità dei lavori archivistici che promosse non fu adeguata. Il compito degli archivisti si riduceva per lui alla scrittura delle descrizioni, mentre non considerò mai gli archivi come testimonianze autonome, ma solo come serbatoi di informazioni.
LUIGI CEPPARRONE (Università degli studi di Bergamo)
Il Portafoglio di un operaio e la fondazione di una ideologia cattolica del lavoro
La vicenda dell’emigrante che da sud viaggia attraverso il nord Italia, narrata nel Portafoglio d’un operaio (1871), dà al Cantù l’occasione per parlare della questione sociale e del problema dell’industrializzazione in Italia. Dall’analisi del carteggio Cantù-Rossi non risulta alcuna committenza (come si pensava sino ad ora) da parte dell’industriale di Schio, ma piuttosto una consultazione del Cantù, che domanda al Rossi informazioni sulla vita degli operai e gli invia le bozze dell’opera per avere eventuali informazioni utili da aggiungere.
L’interesse di Cantù per gli operai e la questione sociale fu un frutto del tutto autonomo nello scrittore: il suo opuscoletto Del progresso positivo (1869) è una celebrazione del progresso, con anche la denuncia dell’urgenza della questione sociale e l’invito ai cattolici ad intervenire.
Il Portafoglio, via di mezzo tra narrazione e saggio, ha una struttura semplice dal punto di vista della fabula, ma complessa per quanto riguarda il tessuto dell’opera, con l’inserzione di ampi passi saggistici, momenti di divulgazione, novelle autonome, lunghi dialoghi; tutti elementi che faranno parlare, nelle recensioni dell’epoca, di opera enciclopedica. La complessità dell’opera del Cantù è commisurata alla complessità del pubblico cui l’autore si rivolge. Il Portafoglio infatti non è solo dedicato agli operai, ma contiene continui consigli e ammonimenti anche agli industriali, ai piccoli e medi imprenditori, agli agricoltori. L’ideologia cattolica interclassista accresce e permea la complessità del testo.
Il valore e l’importanza di un romanzo educativo popolare nascono dall’idea che non lo Stato ma la Chiesa deve occuparsi dell’educazione. Nell’attuale situazione in cui la Chiesa non può svolgere questo compito e lo Stato non deve, l’educazione popolare deve essere affidata alla società civile.
Cantù elabora una ideologia del lavoro giustificandolo in senso cattolico; si tratta di un’ideologia senza utopia: il progresso è utile, ma nessun progresso libererà mai l’uomo dalla sua condizione strutturale; l’uomo è nato per lavorare. Pur in un’ottica paternalistica, in cui l’operaio può solo sperare di mettersi nelle mani di un imprenditore buono e paterno, Cantù nondimeno asserisce anche che gli operai devono poter partecipare all’utile delle industrie.
BERNARDINO OSIO (Segretario Generale della Unione Latina, Parigi)
Le lettere di Cesare Cantù a Pedro II imperatore del Brasile
L’imperatore del Brasile Don Pedro de Alcantara II visitò l’Europa per tre volte con la moglie, negli anni 1871, 1877, 1888, dedicando sempre molto tempo all’Italia e a Milano, ove nel 1871 conobbe Cantù.
La prima traccia del contatto tra i due a Milano si trova in una nota del libro Reminiscenze su Alessandro Manzoni, in cui Cantù racconta come accompagnò Pedro II in visita a Manzoni, autore molto stimato dall’imperatore del Brasile.
Cantù narra le diverse visite di Pedro II a Milano, di come egli lo accolse al suo arrivo alla stazione ferroviaria e lo accompagnò per tutto il suo viaggio milanese, in visita delle principali istituzioni culturali della città.
A Rio de Janeiro sono conservate sette lettere inedite di Cantù all’imperatore (anni 1877-1889). In esse si riscontra l’ammirazione per l’eccezionale personalità dell’imperatore; la riconoscenza per le manifestazioni di stima concessegli; lo sdegno verso la casta militare brasiliana che detronizzò Pedro II; l’accenno alla mancata nomina di Cantù a senatore.
Le lettere sono occasione per il Cantù di riflettere anche su alcuni eventi milanesi, come l’Esposizione nazionale di Belle Arti a Milano (di cui fu presidente onorario), e sulle proprie disavventure editoriali, come la sua protesta contro una non autorizzata traduzione emendata della Storia Universale per Portogallo e Brasile, che non fu sufficiente per evitare l’edizione dell’opera, ma diede al Cantù la determinazione per preparare una decima edizione del suo capolavoro storico. L’ultima lettera, datata 2 dicembre 1889, mostra tutto lo sdegno del Cantù per l’ingiustizia che subì, con la detronizzazione, Pedro II , imperatore illuminato sotto il cui regno venne finalmente abolita la pena di morte in Brasile.
FRANCESCA CANTÙ (Università di Roma Tre)
“America” e “Spagna” nella Storia universale
La sezione della Storia Universale dedicata all’America Latina si articola lungo tre assi cronologici: la storia precolombiana (con alla base il contrasto dialettico civiltà-barbarie); la storia della scoperta e della conquista; la storia dell’emancipazione politica del nuovo continente (preceduta da un excursus sulle caratteristiche delle colonie spagnole dell’America e da una riflessione sui destini imperiali della Spagna).
Cantù traccia lucidamente i legami tra due vicende successive che videro la Spagna protagonista: la cacciata dei mori dal proprio territorio e la conquista dell’America. Gli spagnoli portarono in America le persecuzioni e lo sterminio dell’Islam che avevano perpetrato in patria. Il grosso errore commesso dagli spagnoli fu il mancato tentativo di avvicinare le condizioni e le forme dello stato nuovo con quelle dell’antico. Con ciò Cantù non condivideva il mito del buon selvaggio, ma, analogamente, riteneva che invocare la barbarie del selvaggio serve solo a giustificare la violenza.
Nel cruento scenario di violenza delle conquiste, le missioni sono viste come la sola opera di incivilimento, grazie al lodevole lavoro dei missionari, capaci di conoscere e interagire con la lingua e la cultura indigena. Cantù narra le vicende delle missioni con toni da epopea (negati alla descrizione delle azioni conquistatrici), sfiorando l’idillio nel descrivere le riduzioni gesuitiche del Paraguay. Non è però indulgente nel giudicare l’altra faccia della Chiesa, ambiziosa, assoggettata ai re di Spagna e formata da un clero secolare lassista. Un attento bilancio storico chiude la sezione dedicata alla conquista, stabilendo una distinzione concettuale tra ‘conquista’ (frutto dell’intolleranza) e ‘scoperta’ (positiva perché foriera di nuova ricchezza culturale, sociale, economica).
Nella terza sezione, la crisi dell’America spagnola è individuata nella disgregazione del tessuto sociale e nella corruzione del potere. Il trapianto imposto delle istituzioni spagnole in America fu l’innesto di un elemento in un corpo estraneo, a cui si aggiunsero ingiusti privilegi e leggi oppressive che provocarono la ribellione delle colonie. Ne emerge un ritratto della monarchia spagnola assolutista, accentratrice e oscurantista.
Le conclusioni che l’autore riserva circa il percorso storico secolare del nuovo mondo vertono intorno a una fondamentale lezione etico-pedagogica, con l’idea che tosto o tardi è forza che la libertà vera germogli.